Editoriali

Meridiana. 73-74, 2012

«Meridiana», venticinquesimo anno

A distanza di venticinque anni dalla nascita di «Meridiana», abbiamo accettato con emozione la proposta dei direttori uscenti e della redazione di assumerne la direzione. Una proposta che ci è sembrata entusiasmante ma anche molto impegnativa. La rivista ha al suo attivo settantadue fascicoli e quasi un migliaio di articoli. Un vastissimo patrimonio di conoscenze, frutto di un’esperienza intellettuale ed editoriale, fondata su una prospettiva fortemente orientata a decostruire, de-ideologizzare e criticare modelli interpretativi e stereotipi culturali ispirati da inverosimili e astratte uniformità, che ha messo insieme studiosi, metodi e linguaggi di diversi campi disciplinari.
Il nucleo del progetto originario consisteva, com’è noto, nella critica al paradigma dell’arretratezza del Mezzogiorno proprio della tradizione meridionalista, caratterizzato dall’esigenza di misurare lo scarto con realtà più sviluppate partendo non da una presa in considerazione del Sud come un tutto, ma come realtà complessa e articolata. Si è preso atto con le riflessioni e, soprattutto, le ricerche pubblicate nella rivista che ci sono tanti Sud, anche molto diversi tra loro. L’intenzione iniziale di ripensare il Mezzogiorno, quindi di rivisitare e «revisionare» criticamente la questione meridionale, ha consentito di rileggere in modo nuovo anche i nessi che legano questa parte del Paese alla storia d’Italia e, più in generale, ai processi di sviluppo e modernizzazione. Un’impostazione che ha permesso di vedere in modo diverso e differenziato non solo il Mezzogiorno, ma anche il Nord, o più precisamente il Paese nel suo insieme. Sono emersi punti di vista che hanno cercato di contrastare le visioni lineari e univoche del rapporto tra centri e periferie, l’uso meccanicistico e polarizzato delle categorie analitiche, la tendenza a destoricizzare e decontestualizzare problemi e fenomeni sociali. Molta attenzione è stata dedicata anche alle retoriche e alle rappresentazioni, veicolate nel dibattito pubblico e in quello scientifico, fondamentali per comprendere i processi che sono alla base della costruzione storica e sociale della realtà. Per mettere a fuoco, ad esempio, come alcune questioni possano assumere valenze che «unificano» o «dividono» l’opinione pubblica e le forze politiche, orientando scelte istituzionali e collettive. Il Mezzogiorno è stata e continua a essere una di tali questioni.
«Meridiana» è stata quindi un laboratorio che, mettendo al centro della sua riflessione il tema della pluralità e delle varietà territoriali, ha reso possibile predisporre una cassetta degli attrezzi più adeguata per leggere e analizzare i fenomeni di alterità, differenza e diversità che sempre più caratterizzano le società contemporanee. Sin dall’inizio, la rivista ha affrontato il nodo cruciale del rapporto tra livello micro e livello macro, cogliendo da subito la crescente rilevanza che andava assegnata alla relazione tra dimensione globale e dimensione locale.
Superando in parte il progetto originario, la rivista ha dunque accentuato nel corso degli ultimi anni la prospettiva di analisi e l’aspetto metodologico. È questo il suo valore aggiunto e il suo tratto originale nel panorama delle riviste italiane. «Meridiana» si può occupare di qualunque parte del pianeta per sperimentare un punto di vista processuale, un modo di guardare situato nello spazio e nel tempo, basato sulla multidisciplinarietà e su un uso della storia alimentato dalle domande del presente.
Riteniamo tuttavia che il Mezzogiorno debba rimanere uno dei principali fuochi di interesse della rivista e che continui a essere valido l’approccio intorno al quale «Meridiana» ha svolto i suoi ragionamenti nel tempo. Si è però arricchito e complicato l’insieme degli strumenti interpretativi ai quali s’intende fare riferimento. Non appare possibile tenere distinte le diverse dimensioni – economica, sociale, politica, culturale, territoriale – nell’analisi della realtà meridionale così come si è venuta configurando dall’unificazione fino ai giorni nostri. Né appare possibile separare i processi di trasformazione che hanno interessato il Sud dell’Italia da quelli che hanno caratterizzato il Paese nella sua interezza, né ignorare le «contaminazioni» spaziali, complesse e in continuo mutamento, ovvero quelle connessioni e confluenze che una visione «dualistica» e «sviluppista» difficilmente è in grado di afferrare. Siamo convinti, d’altra parte, che il nostro percorso non può che essere parallelo a quello di una rivisitazione profonda delle categorie e dei criteri di interpretazione che hanno dominato il mainstream dei diversi campi disciplinari, con riferimento ad esempio a concetti quali sviluppo, modernizzazione, stato e mercato.
Finché il dibattito pubblico e i modelli delle scienze sociali continueranno a usare e ad abusare di categorie come Nord, Centro e Sud in chiave geografico-culturale, e cioè collegando a diversi ambiti territoriali un differente sistema di valori (efficienza/inefficienza, sviluppo/arretratezza, civic/uncivic, legalità/illegalità e così via), «Meridiana» si sentirà chiamata a proseguire e a riproporre interpretazioni de-costruttive, orientate a cogliere le articolazioni e le differenziazioni interne, ma anche le strette interdipendenze tra fattori endogeni ed esogeni, mostrando il carattere ben più complesso della realtà oggetto di studio. Ed è in questo senso che quello del Mezzogiorno d’Italia continua a rappresentare un caso che riassume in sé un valore esemplare e dal quale è possibile trarre una lezione valida per contesti anche molto lontani e a esso estranei.
Non si tratta dunque di riproporre un nuovo paradigma o una nuova ortodossia, ma di continuare a percorrere una strada volta a cercare le «verità possibili», per quanto approssimative e difficili da individuare, attraverso un lavoro di scavo e di ricerca, di ridefinizione e di «raffreddamento» di temi e problemi, di messa in discussione di luoghi comuni e di categorie ideologiche, frequentemente impiegati e strumentalizzati nel dibattito pubblico dalle retoriche politiche e dal linguaggio mediatico. Siamo convinti che un contributo autentico di conoscenza può dare un sostegno proficuo non solo alla crescita culturale e scientifica del nostro Paese, ma pure all’azione dei decisori chiamati ad assumere responsabilità pubbliche. Questa ci appare anche la via per non soggiacere a quel senso di rassegnazione che sembra frustrare oggi ogni progetto finalizzato a predisporre la costruzione di una società per le generazioni che verranno.
Il Mezzogiorno è stato dunque uno spazio che ha consentito alla rivista di sperimentare modelli analitici che è possibile trasferire su scala più ampia. L’irrompere della dimensione globale e l’indebolimento di quella nazionale ci impone, poi, un inevitabile allargamento della nostra prospettiva di indagine verso analisi di tipo transnazionale e, al contempo, un avvicinamento ai micro-territori, nuovi protagonisti della scena pubblica. La rivista vuole favorire l’emergere di punti di vista spazialmente e culturalmente diversi, sostituendo all’idea di gerarchia quella di relazione – tra continenti, stati, regioni, città, zone centrali e aree periferiche – nei processi di costruzione e di decostruzione delle società contemporanee. Ci impegneremo quindi affinché essa possa rendere stabile un sistema di comunicazione scientifica e di discussione collettiva tra studiosi con diversa collocazione disciplinare, geografica e culturale, privilegiando impostazioni «dialoganti», disponibili a situarsi tra i confini e ad attraversarli. Riteniamo infatti che «Meridiana» debba continuare a essere espressione di quel «rimescolio» di saperi e di pratiche di ricerca che è suo tratto distintivo sin dalla fondazione.
In questa ottica, crediamo altresì che sia opportuno valorizzare il carattere della rivista in quanto strumento scientifico e multidisciplinare di intervento nel dibattito pubblico e di lettura dei grandi temi che lo animano. I suoi lettori si identificano non solo con la comunità degli studiosi, ma anche con funzionari pubblici, studenti, giornalisti, politici ecc. Esiste una richiesta nuova di conoscenze che non si risolve nella mera crescita culturale in specifici ambiti disciplinari. Si tratta di una domanda di conoscenza come bene pubblico, in grado di orientare le scelte della polis verso un ordine di valori e di soluzioni idonei a favorire un maggiore e più diffuso benessere sociale ed economico. Una delle sfide per la nuova redazione sarà proprio quella di trovare i modi per raggiungere e coinvolgere questo pubblico, anche attraverso la pubblicazione del sito web di «Meridiana», che vuole rappresentarne la sua proiezione oltre i tradizionali confini editoriali.
La rivista può rispondere ancora a una domanda di sapere critico, cercando di cogliere la complessità dei temi che il dibattito pubblico (e spesso anche quello interno alle scienze sociali) presenta in maniera semplificata, strumentale e appiattita sul senso comune. D’altro canto, non vogliamo sottovalutare le difficoltà che «Meridiana» dovrà affrontare per proseguire nel suo cammino. Basti pensare ai cambiamenti che stanno radicalmente trasformando il panorama editoriale, con effetti profondi sulle pubblicazioni scientifiche di tipo periodico, oppure ai processi di valutazione dei «prodotti della ricerca», che determineranno conseguenze non facilmente prevedibili sul medio e lungo periodo. La rivista è pronta a cogliere queste sfide, e si attrezzerà ancor di più per rispondere alle nuove esigenze, senza però snaturare il suo progetto originario né cedere a spinte omologanti o rinunciare ai suoi tratti distintivi, come quello della interdisciplinarietà (nonostante siano emersi orientamenti di segno opposto nei processi di valutazione della ricerca).
«Meridiana» continuerà a proporre un lavoro collettivo che da sempre coinvolge studiosi e intellettuali che appartengono al campo della storia, della sociologia, dell’antropologia, dell’economia, della scienza politica, della geografia e così via dicendo, privilegiando tematiche che per essere comprese a pieno richiedono analisi trasversali ai diversi ambiti disciplinari. Si pensi, solo per citarne alcune, a quelle relative alle diseguaglianze economiche e sociali, all’ambiente, ai movimenti migratori, allo sviluppo, ancora alle differenze territoriali. Verrà quindi preservata e valorizzata anche la prospettiva comparata, sul piano metodologico, tematico e geografico. Molto spazio sarà ancora dedicato a ospitare risultati e materiali di ricerche originali, con particolare attenzione a quelle prodotte da giovani studiosi, essendo un altro tratto peculiare della rivista quello di favorire un fruttuoso interscambio tra generazioni diverse di ricercatori. Noi ci impegneremo a portare avanti il percorso di «Meridiana», forti del sostegno di chi ci ha preceduti e dei nuovi compagni di viaggio che ci affiancheranno.

Gabriella Corona e Rocco Sciarrone

Meridiana. 46, 2003

Inaugurando una nuova stagione della nostra rivista, abbiamo voluto riflettere sul problema dell’identità europea. La scelta ha una sua coerenza. «Meridiana» ha lungamente ragionato su temi analoghi per quanto riguarda il Mezzogiorno nell’Italia unita, centrando il suo discorso su un’esperienza storica che in età liberale, fascista o repubblicana ha visto una molteplicità di identità regionali sovrapporsi problematicamente all’identità nazionale, senza pensare che le prime contraddicessero la seconda, anzi nella convinzione che per certi versi tale sovrapposizione rappresentasse il fulcro della storia italiana.
L’Europa unita, per come è stata sinora e per come presumibilmente sarà, ripropone questo tema delle identità plurime e ovviamente, rispetto al caso italiano come a qualsiasi altro caso nazionale, lo amplifica di molto, perché non è pensabile che la pluralità linguistica, culturale, politico-istituzionale esistente possa tollerare una reductio ad unum: non a caso abbiamo davanti ai nostri occhi identità e istituzioni nazionali che tengono, nonché identità e istituzioni regionali che nei vecchi contenitori avevano scarsa evidenza, e che vengono in primo piano proprio adesso. Mitologie identitarie «dure», tipiche del vecchio Stato potenza ottocentesco, esacerbate dai totalitarismi nati dalla fornace della Prima guerra mondiale, modellate sulle gerarchie dell’armata e della fabbrica, sarebbero tra l’altro singolarmente spaesate in un’Europa nata proprio dalla coscienza del carattere distruttivo degli estremismi nazionalistici, nonché dalla dissoluzione della potenza degli europei nell’altra fornace della Seconda guerra mondiale, e poi nel processo di decolonizzazione.
La costruzione europea da un lato riflette e dall’altro provoca il fenomeno epocale della scomparsa della guerra guerreggiata, dopo qualche millennio, dal cuore del continente; e va detto che con i suoi collanti deboli, con la sua insistenza sulle priorità dell’unificazione economica, con la sua tenue spinta ideologica, l’Europa unita rappresenta l’evento politico-istituzionale forse più rilevante mai realizzatosi nella storia senza il concorso delle armi. L’assenza della guerra fa bene alla salute mentale dei popoli. Come nota nel nostro fascicolo Bonanate, anche solo quest’elemento rappresenta una straordinaria suggestione positiva per il resto del mondo: all’insegna del motto si vis pacem para pacem, potrebbe essere volta in positivo la ormai famosa metafora nata negli ambienti neo-conservatori d’oltre oceano per stigmatizzare le impotenze del vecchio continente, che apparenta l’Europa vecchia e stanca al dominio di Venere, mentre gli Stati Uniti d’America giovani e pugnaci sarebbero da inserirsi in quello di Marte.
Usualmente le classi dirigenti del passato hanno provato a dare alle nazioni coscienza di sé attraverso l’elaborazione di una storia comune fatta di virtù guerresche sfortunate o fortunate, di eroismi e tradimenti, nella convinzione che le identità nazionali fossero entità metastoriche che potessero magari assopirsi ma che erano destinate prima o poi a risvegliarsi. Queste operazioni hanno avuto il prezzo di una rimozione dalla memoria di differenze e contrasti intestini, sono state insomma realizzate, diceva Renan, falsificando il passato. Alla luce di quanto abbiamo detto, nel caso dell’odierna costruzione europea costruzioni mitopoietiche di questa natura sembrerebbero improponibili, oltre che controproducenti; eppure, spiega Marcello Verga nel contributo che qui pubblichiamo, gli storici sono stati sollecitati sia pure blandamente ad operazioni di questa natura dalle istituzioni comunitarie, sin dalle loro origini; ed è possibile che oggi si prema per la realizzazione e la diffusione di manuali di storia europei politicamente corretti e di tipo edificante, da cui francesi e tedeschi, polacchi e ucraini traggano l’idea che in fondo bisogna volersi bene.
Per fortuna a questo livello non siamo ancora all’imbarazzante situazione italiana che vede moltiplicarsi gli appelli politico-istituzionali agli storici perché lavorino alla costruzione di una memoria condivisa del passato: appello che contiene un richiamo sottile quanto subdolo al principio di autorità, sotto il quale si nasconde forse un qualche fastidio nei confronti delle troppe libertà che gli studiosi usano prendersi quando trattano di eventi del passato ritenuti scottanti per la vita pubblica di oggi. Ovviamente, non si vuole qui negare la legittimità dell’uso pubblico della storia, ovvero di una presentazione del passato a fini identitari o legittimanti da parte di istituzioni e movimenti politici; ma certamente si deve dire che tali finalità divergono il più delle volte da quelle conoscitive, oggi con ben maggiore evidenza rispetto a ieri, che la storiografia non serve ad ammaestrare al bene, né a creare concordia, ma anzi talvolta, ricostruendo i contrasti del passato in tutta la loro asprezza, potrebbe ottenere risultati opposti.
La Chiesa cattolica è entrata energicamente nel dibattito sulle radici d’Europa esigendo un richiamo esplicito alle origini cristiane della nostra civiltà, da iscriversi sin nel testo di quel documento che pomposamente viene chiamato Costituzione europea. Ovviamente, richiami di questo genere potrebbero moltiplicarsi all’infinito perché, come vedrà il lettore leggendo il saggio di Cazzaniga, molte sono le correnti ideali recenti e a maggior ragione remote che potrebbero porsi a base dell’identità europea; talmente numerose che c’è da chiedersi a cosa serva elencarle in un testo legislativo. Tra l’altro depongono in direzione contraria le costituzioni europee esistenti (ivi comprendendo quella italiana), che definiscono diritti e doveri della cittadinanza in senso universalistico, non in relazione a uno specifico popolo e tanto meno a uno specifico retaggio culturale o peggio religioso. Come potremo in tal guisa chiedere a un ebreo, a un islamico, a un buddista, di identificarsi nella Costituzione ovvero nella cittadinanza europea? Procederemo aggiungendo qualche riferimento ai testi sacri dell’ebraismo o qualche citazione del Corano per rendere il tutto accettabile e politicamente corretto? O pretenderemo di impartire agli integralismi che si moltiplicano minacciosi in giro per il mondo lezioni alla Oriana Fallaci sulla superiorità della nostra civiltà sulla loro?
La domanda va posta perché dietro ogni rivendicazione sulle radici d’Europa si profila il tema della superiorità europea (occidentale), magari imperniato sull’argomento per il quale qui e soltanto qui si sono sviluppate e tuttora prosperano istituzioni democratiche. Come ha scritto di recente Amartya Sen spesso si va molto al di là dell’indubbio riconoscimento che la democrazia è una forma di governo prevalentemente occidentale nel mondo contemporaneo, giungendo a sostenere che sia un’idea le cui radici si possono trovare esclusivamente in uno specifico tipo di pensiero occidentale, che per lungo tempo è fiorito soltanto in Europa e in nessun’altra parte del pianeta (1).
Insomma dietro l’argomento, che di per sé potrebbe essere preso in qualche considerazione, si nasconde il più classico degli schemi identitari, quello che lega la costruzione del sé alla formazione di stereotipi negativi sull’altro. Si pensi all’eccessivo peso che si tende a dare nell’opinione pubblica europea (media e istituzioni compresi) al tratto etnico della grande criminalità, tema su cui ci siamo soffermati in un recente numero di «Meridiana». Si pensi all’impudenza con cui, nello stesso momento in cui scriviamo, la guerra viene propagandata come un ottimo strumento per imporre progresso e democrazia a popoli giudicati barbari.
Se vogliamo confrontarci con modelli pur sempre elevati, possiamo riferirci a un libro pubblicato qualche anno fa da un grande studioso come Landes, dove l’intera storia mondiale negli ultimi mille anni è stata ricostruita sulla base della frontale contrapposizione tra un Occidente capace di creare sia ricchezza che libertà che potenza militare, e gli altri, incapaci di produrre sia l’una che le altre; insomma a partire da un’orgogliosa rivendicazione della superiorità occidentale, da sempre e per sempre. Va peraltro sottolineato come per Landes l’antinomia si riverberi all’interno dello stesso Occidente, concetto che nel testo in questione si riduce all’area atlantica comprendente i due Paesi anglosassoni, Inghilterra e Stati Uniti, destinati (per usare una terminologia hegeliana) a portare la fiaccola della civiltà e a scambiarsela tra loro; mentre l’Europa mediterranea (non parliamo di quella orientale) si sarebbe rivelata incapace, in quanto cattolica, di produrre e libertà e sviluppo economico. L’Italia potrebbe rappresentare per il nostro autore un problema interpretativo, per la precocità del suo sviluppo industriale, ma qui a suo dire la Controriforma può spiegare tutto o quasi. La Sicilia quattrocentesca espulse gli ebrei, e sempre stando a Landes quest’evento risulta determinante a cinque secoli di distanza per «l’odierna persistente arretratezza dell’isola» (2). Ma vediamo come egli descrive l’odierno Mezzogiorno d’Italia:

Il Sud è rimasto arretrato, nonostante gli enormi sussidi governativi e, oggigiorno, della Comunità europea. Il paesaggio è butterato di fabbriche inoperose, di palazzi residenziali lasciati a metà, di strade che finiscono nel nulla. Questo mare di fallimenti e di disperazione è il risultato di tare molto gravi: ignoranza, pregiudizio, mancanza di comunicazioni, criminalità organizzata. Il Mezzogiorno continuerà a pagare per i peccati commessi in passato. Molte persone del Nord sono disgustate al punto di parlare di secessione (leggi: espulsione). Non accadrà. Ci vogliono i pragmatici cechi per sbarazzarsi della Slovacchia (3).

La consonanza tra gli argomenti di Landes e quelli di Bossi potrà stupire, ma in fondo quest’incursione nelle piccole cose di casa nostra in un libro sulla storia della civiltà universale è coerente con il complesso della tesi, anzi nel brano citato c’è tutto: l’esplicito e l’implicito. «Fallimenti » e «disperazione» sono il risultato di antichi «peccati» che calvinisticamente non potranno mai essere riscattati o perdonati, che anzi provocano il «disgusto» delle persone dabbene determinando l’«espulsione » dei reprobi dall’umano consesso: peccato che gli italiani del nord, pur sempre affetti dalla tabe latina e cattolica, manchino della moralità necessaria ad erogare condanne giuste ancorché severe.
Insomma, stando a questi ragionamenti stereotipati c’è sempre un sud o un est da escludere dalla storia, o dalla parte buona della storia che sta a nord e a ovest. Un tale schema identitario, sgradevole dal punto di vista morale, vano da quello culturale, inefficace da quello conoscitivo, è anche inadatto a operazioni di public history che vogliano rappresentare l’Europa nuova. D’altronde l’Europa non è mai stata vista come un tutt’uno, anzi le sue diverse parti sono state usate per simboleggiare tendenze opposte. In una qualsiasi idea di Europa, quanto meno dalla prima età moderna, l’est europeo ha rappresentato l’Asia, il Mediterraneo l’Africa e ancora l’Asia, la barbarie orientale, la naturalità contrapposta alla civilizzazione: i vaghi confini geografici del continente sono stati cioè proposti come fortissimi confini simbolici tesi a identificare sotto il profilo culturale, economico e politico l’Europa vera da una non-Europa, o da un’anti-Europa. Se oggi vogliamo dare pari dignità ai popoli del vecchio continente, dobbiamo uscire da questi schemi, guardarci dalle rielaborazioni di miti passati, basarci sul presente e costruire il futuro.
Ed ogni spirito costruttivo e consapevole che volga lo sguardo verso il futuro dell’Europa non potrà non riconoscere che accanto a molti rischi si dispongono innumerevoli opportunità. Tra gli uni e le altre dovrà destreggiarsi l’iniziativa politica alla quale principalmente spetta, come è accaduto in altri momenti di analoga importanza, la responsabilità di tracciare il percorso che dovremo seguire per molti anni a venire.
Si avverte un diffuso pessimismo sulla capacità dell’Europa di promuovere il benessere dei suoi oramai numerosissimi cittadini. Spesso, alla base di questo pessimismo, vi è l’osservazione parziale degli accadimenti economici degli ultimi due o tre decenni e qualche improbabile comparazione con gli Stati Uniti. È vero che il prodotto pro capite degli Stati Uniti è circa del 30% più alto di quello europeo, ed è altrettanto vero che questo differenziale non è stato eroso negli ultimi trent’anni. Ma si dovrebbe anche ricordare che la produttività del lavoro in Europa, nello stesso periodo, è cresciuta più di quella americana in modo da completare il processo di catching up iniziato all’indomani del secondo dopoguerra. Gli europei, dunque, nel corso di questi trent’anni hanno accresciuto la propria capacità di produrre più di quanto abbiano fatto gli americani, eppure ciò non è valso a colmare le differenze nel reddito pro capite. Ciò è avvenuto perché gli americani hanno lavorato più degli europei, come dimostrano i dati sulle ore di lavoro annuali complessive. La tendenziale riduzione delle ore lavorate in Europa può avere cause e natura diverse. Da un lato, si potrebbe trattare di una scelta volontaria, di una maggiore preferenza per il tempo libero; dall’altro essa potrebbe derivare da un cattivo funzionamento del mercato del lavoro (le famose rigidità!) che obbligherebbe al tempo libero anche chi in realtà vorrebbe lavorare, guadagnare e consumare di più. Si dibatte quale sia l’importanza relativa di queste due cause ma sembra ragionevole attribuire un peso non secondario alle diversità culturali e ritenere che in larga misura gli americani hanno continuato a lavorare molto per poter consumare di più, mentre gli europei hanno scelto di lavorare meno per poter godere dei piaceri del tempo libero. Se si guarda soltanto al Pil pro capite – attribuendo per l’ennesima volta a questa unità di misura significati che essa non può sostenere – si commette il grave errore di non comprendere che le distanze tra Usa e Europa sono il frutto non tanto di diverse capacità produttive, di modelli economici strutturalmente differenti, di istituzioni troppo o troppo poco protettrici di alcuni diritti sociali, quanto, e soprattutto, di diverse scelte sul come usufruire del benessere aggiuntivo al quale consente di accedere il progresso economico. Se gli europei hanno un reddito pro capite più basso, non per questo il loro benessere è inferiore a quello degli americani.
La considerazione della diversità tra queste opzioni collettive nei due continenti esemplifica assai bene il ruolo che anche in economia hanno e devono avere le specificità culturali, e illustra la debolezza delle tesi di coloro che in nome della religione del Pil nulla trovano di meglio che consigliare all’Europa di americanizzarsi nelle istituzioni, nei modelli e anche nei valori, dandosi finalmente una unica, nuova identità. Consideriamo questi dati. Negli Stati Uniti, secondo una recente indagine, il 19% della popolazione adulta ritiene di far parte dell’1% più ricco del Paese, e un ulteriore 20% ritiene che nel corso della sua vita entrerà a far parte di quel privilegiatissimo 1% (4). È chiaro che la quasi totalità di queste persone ha percezioni e aspettative errate, ed è altrettanto chiaro che vi è una fiducia altissima nell’efficacia dei meccanismi di mobilità sociale impliciti in un’economia fortemente dominata dal mercato. Qui appare decisiva la forza persuasiva e un po’ fantasiosa del sogno americano, dell’American Dream. Essere o diventare ricchi è possibile per tutti: non conta tanto che ciò sia vero, quanto piuttosto che lo si creda intensamente. Dunque, il sogno, per moltissimi irrealizzabile, di far parte del top 1% spinge a lavorare – e a far lavorare – con eccezionale intensità, mentre i più disillusi europei scelgono di godersi altri aspetti della vita. Forse, bisogna aggiungere, essi ne hanno il diritto.
Tali diversità danno anche conto del diverso atteggiamento di americani ed europei nei confronti della difesa e della protezione dei diritti sociali. Ad esempio, da un’indagine che ha posto a confronto con gli Usa il più americano dei Paesi europei, cioè la Gran Bretagna (5), risulta che solo l’1% degli americani è favorevole a una maggiore tassazione per la realizzazione di migliori servizi pubblici, contro il 62% dei britannici. Questo risultato – assieme ad altri – conferma, tra l’altro, che può essere molto saggio distinguere i cittadini da chi li governa. Gli europei insomma non hanno coltivato un sogno come quello americano, ed è improbabile che inizino ora a coltivarlo. Al contrario, molti di loro hanno assistito non a un sogno ma a una specie di miracolo: il miracolo della cosiddetta età dell’oro, ovvero a un primo venticinquennio repubblicano ove le istituzioni non erano orientate alla flessibilità, alla competizione fiscale, ecc. di cui oggi tanto si parla, ma a una sagace combinazione di protezione sociale e crescita economica. Convincerli che il mondo è cambiato al punto da rendere impossibile anche una versione aggiornata e ammorbidita di quel modello non è facile, e forse non è nemmeno desiderabile. Le loro domande di protezione sociale, e l’eventuale capacità delle nuove istituzioni europee di soddisfarla, possono avvicinare l’Europa al resto del mondo «non-americano» dove, come alcuni studiosi americani sostengono (Calleo, Kupchan), questi valori sono assai più familiari dell’American dream.
Insomma, tali elementi dovrebbero concorrere in modo netto a delineare il profilo della nuova Europa; d’altro canto, proprio assicurando sia progresso economico che protezione sociale il nuovo corso potrebbe trovare la necessaria legittimità. La coesistenza delle ragioni del progresso con forme anche elementari di tutela dei diritti sociali non è però agevole: molti fattori ostacolano la ricerca del punto di equilibrio tra le ragioni, per diversi aspetti positive, dalle competizione e quelle della difesa dei più deboli. I saggi di Di Matteo, Farina e Granaglia, che compaiono in questo fascicolo, illustrano a fondo i nodi che occorre sciogliere e i rischi contenuti in un processo di costruzione europea che, come alcuni segnali possono far temere, appare troppo in debito nei confronti del pregiudizio favorevole verso il «modello americano» – del quale, peraltro, possono darsi diverse interpretazioni. Come gli stessi saggi segnalano, vi sono strade interessanti da esplorare e principi da difendere senza che venga messa in pericolo la più generale capacità di progresso economico. In fondo il Consiglio europeo di Lisbona del 2000, riagganciandosi ai progetti di Delors, ha indicato con chiarezza che la strada da seguire è quella della conciliazione del dinamismo economico con l’equità sociale. Ciò richiede non la riduzione dei costi, la compressione salariale, la riduzione delle tutele ma, in primo luogo, il sostegno alla capacità di innovare, di accumulare e utilizzare adeguatamente il capitale umano. Questo progetto, come è evidente, richiede una dose crescente di attenta iniziativa politica e di innovazione istituzionale.
La storia dell’Europa negli ultimi cinquanta anni è stata in modo nettamente preponderante una storia di integrazione economica, e per questo l’Europa economica è nettamente più avanti di quella politica. Le istituzioni che essa si è data sono, in larga misura, ispirate all’idea che la tecnocrazia sia una forma di governo spesso preferibile alla democrazia politica, con il conseguente deficit democratico di cui molto si discute. Si è fatta strada e si è radicata la convinzione che fosse necessario «legare le mani» dei politici, limitandone, con l’imposizione di regole fisse, la discrezionalità di scelta che avrebbero usato per proteggere le proprie «rendite politiche» piuttosto che per promuovere gli interessi generali. Gli esempi più chiari al riguardo – e non si tratta di un caso - ricadono nella sfera economica: la politica monetaria è affidata, con una precisa missione, all’autonoma e tecnocratica Banca centrale europea, la politica fiscale è «ingessata» dal tecnocratico Patto di stabilità e crescita. Le vicende che hanno di recente riguardato questo Patto segnalano, però, che la strategia di «legare le mani» dei politici e di affidare ai tecnocrati il compito di farsi interpreti del benessere generale è anche minata da qualche ingenuità: il 25 novembre scorso il Consiglio europeo, composto dai rappresentanti di tutti i governi, non ha approvato la richiesta della Commissione europea di avviare le procedura di sanzionamento contro la Francia e la Germania, che a tali sanzioni si erano esposte avendo lasciato crescere i loro deficit pubblici oltre il previsto limite del 3% del Pil e avendo altresì disatteso l’impegno a indicare politiche attendibili di rientro.
Non è facile prevede cosa accadrà, ma le questioni indicate ci pongono di fronte a nodi decisivi, per sciogliere i quali occorrono scelte diverse e coraggiose: contro l’opportunismo dei politici – che difficilmente potrebbe essere negato, almeno come concretissima eventualità – occorre rafforzare la democrazia e non affidarsi interamente ai tecnocrati che troppo spesso distinguono a fatica il confine tra l’interesse generale e il «buon» funzionamento dei mercati.
Il progetto di costruire un’Europa progressiva, democratica e giusta ha bisogno di istituzioni politiche nuove e più distintamente comunitarie, come argomentano in questo fascicolo Di Matteo e de Ioanna. Innanzitutto, si pone il problema di rimodulare ed eventualmente ampliare il bilancio dell’Unione europea anche per temperare ed equilibrare la già avvenuta centralizzazione delle politiche monetarie. Vi sono validi argomenti per affermare, ad esempio, che le politiche a sostegno dell’agricoltura dovrebbero essere poste a carico dei bilanci nazionali permettendo di liberare risorse a vantaggio di beni collettivi, come ad esempio la ricerca, che più appropriatamente possono essere finanziati e prodotti a livello comunitario. Vi sono anche valide ragioni per invocare l’ampliamento del bilancio comunitario che richiederà, per essere realizzato, un gesto di straordinario significato anche simbolico, l’introduzione di un tributo europeo. In questo modo sarà possibile ridare maggiori margini di manovra alla politica della spesa pubblica che oggi è praticamente assente a livello comunitario e sostanzialmente impedita a livello nazionale dal Patto di Stabilità e Crescita che, come noto, impone ai deficit pubblici di non superare il 3% del Pil. Le tendenze in atto, però, allontanano nel tempo il momento in cui questi mutamenti saranno realizzabili.
Ma il processo di costruzione politica dell’Europa dovrebbe darsi obiettivi più ambiziosi. Vi sono molte ragioni per ritenere che un’Europa convinta della compatibilità tra le ragioni del progresso economico e quelle della giustizia civile non possa fare a meno di istituzioni politiche realmente europee. Tra i molti problemi, si consideri il seguente. Con i processi di allargamento rischia di perdere fondamento la tesi, frequentemente sostenuta, secondo cui le disuguaglianze in Europa sono meno pronunciate che negli Stati Uniti. Infatti, il reddito pro capite in Lettonia, uno dei Paesi dell’allargamento, era al 2001 di 7750 euro in parità di potere d’acquisto, e quello del Lussemburgo di 44160 euro. Quasi sette volte di più. L’apertura a aree povere rende insomma l’Europa un territorio di ben stridenti disuguaglianze, e le istituzioni disponibili per ridurre queste disuguaglianze (costituite essenzialmente dalle politiche di coesione che assegnano i cosiddetti fondi strutturali alle aree con il più basso reddito pro capite) appaiono inadeguate a evitare tali stridenti differenze: in altri termini, senza un rafforzamento delle istituzioni politiche comunitarie, non solo l’idea egualitaria si trasformerebbe in una debole utopia, ma arriveremmo al paradosso di un’Europa caratterizzata da una maggiore disuguaglianza rispetto agli Stati Uniti. Anche per questo il tema dell’unità politica, affrontato da Patrono nel suo saggio, deve ricevere adeguata attenzione.
Le opportunità offerte dal processo in corso sono eccezionali. Si può costruire un’Europa dinamica, equa e democratica ma i rischi non devono essere sottovalutati: essi nascono soprattutto dalle prevedibili resistenze degli interessi che il processo di integrazione inevitabilmente minerà. Un’iniziativa politica elevata e lungimirante non potrà non distinguere chi è impegnato a difendere un privilegio da chi teme di vedersi sottrarre un diritto, in una logica finalizzata alla sconfitta dei primi e alla giusta tutela dei secondi.

Maurizio Franzini e Salvatore Lupo

Note
1 A. Sen, La democrazia degli altri, Mondadori, Milano 2004, pp. 6-7.
2 D.S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni: perché alcune sono così ricche e altre così povere, Garzanti, Milano 2000, p. 200.
3 Ivi, p. 268.
4 T. Judt, Anti-Americans Abroad, NYRB May 1, 2003; Id., A Tale of Two Legacies, in «The Economist», December 21, 2002; Id., «Financial Times», January 25-6, 2003.
5 Si veda «The Economist», December 21 2002.